![]() |
![]() |
di Lidio Zaupa
Quando il 3 dicembre scorso sono uscito dall'aeroporto di Abidjan per
involarmi verso Ayamé, la piccola cittadina che si trova ad est
della Costa d'Avorio, sono stato colpito da alcune camionette piene di
militari che sfrecciavano veloci lungo le strade della metropoli ivoriana.
La Costa d'Avorio ha vissuto gli ultimi decenni sostanzialmente sempre
in pace. E' vero che dal Natale del 1999 alcune cose sono cambiate, le
tensioni cresciute e le contrapposizioni diventate sempre più forti.
Ma non sembrava davvero che questo Paese in rapida crescita economica
e capace di accogliere tra i suoi confini milioni di emigranti, potesse
in breve tempo essere preda di alcuni reparti militari armati fino ai
denti di cui non si conosce ancora la provenienza e il sostegno.
La guerra fa paura. L'abbiamo scoperto, con il gruppo di volontari con
cui sono sceso in Africa per l'inaugurazione del dispensario di Songan,
in ogni villaggio dove alcuni giovani avevano organizzato posti di blocco.
Ti guardano, controllano, esigono. Non è bello. La gente non è
serena perché in quest'isola felice la guerra era sconosciuta.
Vedendo sul giornale locale le foto di giovani rimasti uccisi lungo le
strade delle città occupate, si freme e ci si indigna. Ancora una
volta l'Africa è stata colpita nella sua voglia di sviluppo e di
novità. Erano molti i giovani da queste parti che avevano sognato
un mondo diverso, fatto di incontro e di dialogo, di amicizia e di solidarietà.
Molte delle loro attese oggi sono andate deluse, i sogni infranti, il
futuro incerto. Molti di loro stanno rispondendo alla chiamata alle armi
per combattere i ribelli: occhio per occhio, dente per dente. La dura
legge del taglione è dura da morire.
Qualche volta mi viene da pensare che tutto questo non è poi tanto
dissimile dal nostro modo di ragionare e di affrontare la vita. Anche
noi abbiamo paura, non forse di una guerra immediata, ma della guerra
contro il diverso che ogni giorno dobbiamo combattere, contro le bande
armate che agiscono anche dalle nostre parti, contro i nostri figli che
prendono strade sbagliate, contro i nostri vecchi che ci infastidiscono
con le loro intemperanze, contro i vicini che non riusciamo ad amare,
contro… contro…
L'inizio del nuovo anno ci porta per altre strade. Il Papa, nel messaggio
per la giornata mondiale per la pace del 1 gennaio 2003, ci dice che la
pace è un impegno permanente. L'ha fatto commemorando il 40mo anniversario
dell'enciclica di Giovanni XXIII "Pacem in terris", il primo
documento che un Papa ha rivolto non solo ai cattolici ma a tutti gli
uomini di buona volontà. Perché la pace va costruita insieme,
non è prerogativa dei soli credenti, è un bene di tutta
l'umanità e da tutti va salvaguardato.
Sono quattro i punti ben saldi che il Papa pone perché la pace
abbia solide fondamenta: la verità, la giustizia, la carità
e la libertà. Parole antiche ma mai vissute pienamente perché
l'uomo è sempre segnato dal peccato originale, sempre piccolo e
incapace di rispondere in modo pieno e adeguato al grande progetto di
pace di Dio. Soprattutto oggi che il mondo è diventato villaggio
globale si impone in maniera forte l'esigenza di rispettare le grandi
direttrici che costruiscono la pace.
La pace oggi ha bisogno di nuovi costruttori, di nuovi testimoni che siano
capaci con la loro vita di porre dei segni che mostrano la pace. E ci
sono. Li ho incontrati anche nella mia ultima visita ad Ayamé,
in Costa d'Avorio: alcuni giovani laici che stanno dedicando un pezzo
della loro vita alla gente di qui. Giacomo, Emy, Lorenzo, Rosalia, Mirco,
Tommaso: dietro ad ogni volto c'è una persona che ha deciso di
non usare solo parole per costruire la pace ma di mettere la propria vita
a servizio soprattutto dei più poveri perché possa davvero
nascere quel mondo fondato sulla verità, sulla giustizia, sulla
carità e sulla libertà.